Vademecum per il Giorno del Ricordo - Seconda edizione 2020
VADEMECUM PER IL GIORNO DEL RICORDO
In questa seconda edizione, abbiamo tenuto conto delle osservazioni e richieste che ci sono pervenute nei mesi scorsi.
Ad esempio, ci è stato fatto giustamente notare che la storia della crisi adriatica non comincia nel 1918, perché le conflittualità nazionali erano di più lunga data. Così, abbiamo aggiunto altre tre schede riguardanti I conflitti nazionali, L'irredentismo italiano e L'irredentismo sloveno e croato.
Abbiamo poi riformulato la voce Negazionismo, per articolarla meglio e fare un po' di chiarezza sui correlati termini Riduzionismo e Giustificazionismo.
Nella sezione sulla memoria, abbiamo inserito una nuova scheda per mettere a fuoco il rapporto fra Memoria e storia ed abbiamo ripreso il tema nelle FAQ, per discutere di Memoria condivisa e Percorsi di riconciliazione.
Sempre nelle FAQ, abbiamo affrontato la questione, che ci è stata molte volte proposta, del possibile paragone tra foibe, esodo e Shoah.
Infine, nella sezione dedicata alle immagini abbiamo cercato di spiegare quali sono sia i limiti che le possibilità di utilizzo didattico delle cosiddette "carte etniche", che tanta fortuna hanno avuto il secolo scorso sia fra gli studiosi che fra i politici dalle varie parti del confine.
Naturalmente, non credo proprio che abbiamo accontentato tutti, né questo del resto è lo scopo del prodotto. La finalità rimane infatti quella della prima edizione: offrire uno strumento di prima consultazione, il più possibile rigoroso anche se sintetico, a quanti (in primo luogo giornalisti, insegnanti, politici) hanno bisogno di un'informazione di base sui temi legati al Giorno del ricordo nell'imminenza del 10 febbraio. Per questo, ci siamo impegnati ad utilizzare un linguaggio il più possibile neutro (le passioni poi, se ritengono, le reitrodurranno gli utenti) ed abbiamo cercato di offrire risposta ai quesiti che più frequentemente ci vengono rivolti da molti anni a questa parte.
Ogni anno, nell’imminenza del 10 febbraio, operatori politici, della comunicazione e della scuola si trovano a dover commentare i passaggi cruciali di una storia obiettivamente complessa come quella della Frontiera adriatica nel ‘900. Nella miriade di voci è difficile trovare informazioni rigorose e sintetiche, mentre abbondano semplificazioni e deformazioni interpretative. Il Vademecum vuole offrire un contributo di chiarezza e praticità di consultazione. Il prodotto è suddiviso in capitoli, in ordine cronologico: questioni generali, fascismo di confine, occupazioni italiane in Jugoslavia, foibe, esodo. Segue poi una sezione dedicata alle domande più frequenti. Ulteriori strumenti sono una bibliografia sintetica, le foto e le mappe storiche, tutte libere da diritti. I testi sono di Gloria Nemec, Raoul Pupo e Anna Vinci, le mappe di Franco Cecotti. La cura è di Raoul Pupo. Il testo originale, pubblicato nei primi mesi del 2019, è stato integrato alla fine del medesimo anno in modo da tener conto delle osservazioni e richieste di chiarimento pervenute da parte di alcuni lettori, che qui si ringraziano. Nel testo sono stati inseriti anche alcuni link ad altri prodotti multimediali dell’Irsrec, la cui consultazione può aiutare ad approfondire le tematiche del Vademecum: alcuni sono già attivi, altri lo diventeranno nel corso del 2020.
Il Vademecum non vuol essere un compendio generale di storia delle regioni adriatiche, ma un sussidio specifico dedicato a chi si trova ad occuparsi dei temi maggiormente legati alla celebrazione del Giorno del Ricordo. Non vengono perciò in questa sede affrontati altri problemi di pur fondamentale importanza per la storia di confine, quali l’occupazione nazista ed i movimenti resistenziali, che troveranno posto invece in un Vademecum Resistenza al confine italo-jugoslavo, che verrà attivato nel corso del 2020.
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INDICE
QUESTIONI GENERALI: Frontiera adriatica; Venezia Giulia; Etnia e nazione; Territorio etnico; Italianità adriatica; Questione adriatica; Conflitti nazionali; Irredentismo italiano; Irredentismo sloveno e croato; Pulizia etnica; Negazionismo/Riduzionismo/Giustificazionismo
FASCISMO DI CONFINE: ideologia; squadrismo; bonifica etnica
OCCUPAZIONI ITALIANE IN JUGOSLAVIA: Annessioni italiane; Crimini di guerra italiani
FOIBE: geologia; utilizzi; Foiba di Basovizza; Foibe (simbolico); Foibe istriane; Foibe giuliane; Foibe (quantificazione); Foibe 1945 (Rapporto finale della Commissione storico-culturale italo-slovena); Infoibati
ESODO: definizione; Esodo dei giuliano dalmati (ondate); Esodo dei giuliano dalmati (motivazioni); Esodo dei giuliano-dalmati (strategia delle autorità); Esodo dei giuliano dalmati (Opzioni); Esodo dei giuliano-dalmati (crisi del Cominform); Esodo dei giuliano-dalmati (Controesodo); Esodo dei giuliano dalmati (accoglienza); Esodo dei giuliano dalmati (Italiani rimasti)
QUESTIONE DI TRIESTE: Corsa per Trieste; Crisi di Trieste; Trattato di pace; Territorio Libero di Trieste; Memorandum di Londra
AMNESIE E RICORDI: Memoria e storia; Dalla sovraesposizione al silenzio; La riscoperta e il ricordo
Nell’autunno del 1943 come furono accolti i tedeschi in Istria?
È vero che gli infoibati vennero gettati negli abissi ancora vivi?
È vero che nelle foibe vennero gettati anche donne e bambini?
Le foibe avevano lo scopo di far fuggire gli italiani dalla Venezia Giulia?
Le foibe furono una “resa dei conti”?
Le foibe furono un atto di genocidio?
Le foibe giuliane furono un atto di “pulizia etnica”?
Le foibe furono una repressione per categorie?
Le foibe furono una repressione per quote?
Le foibe furono la causa dell’esodo?
L’esodo fu indotto dalla propaganda del governo italiano?
L’esodo fu un atto di “pulizia etnica”?
Si possono paragonare le foibe alla Shoah?
Si può paragonare l’esodo alla Shoah?
È possibile puntare ad una memoria condivisa delle genti di frontiera (italiani, sloveni e croati)?
È possibile riconciliare le memorie delle genti di frontiera (italiani, sloveni e croati)?
APPARATO ICONOGRAFICO
Mappe e immagini libere da diritti, possono essere riutilizzate citando la fonte
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É la lunga fascia costiera dell’Adriatico orientale che dal golfo di Trieste scende fino al Montenegro. Si tratta di una zona di sovrapposizione fra periferie: quelle dei mondi latino, germanico e slavo, con alcune presenze ungheresi. Al suo interno sono state tracciate nel tempo molteplici linee di confine. Come in molti altri casi, i numerosi incroci linguistici e culturali hanno reso più ricche di complessità le società di frontiera, ma hanno anche generato forti conflittualità.
Per approfondimenti sul tema si segnalano due approfondimenti metodologici presenti sul sito www.regionestoriafvg.eu, precisamente Che cos'è un confine? e Storia di confini e di cartografie nell’Alto Adriatico
Definizione coniata nel 1863 dal glottologo goriziano Graziadio Isaia Ascoli per offrire un nome alternativo alla provincia austriaca del Litorale. Secondo Ascoli, nell’Italia nord-orientale esisteva una grande regione veneta, accomunata dal dialetto sostanzialmente simile parlato dalle popolazioni ivi residenti (Ascoli si riferiva solo alle popolazioni romanze, non tenendo conto degli slavofoni). Questa macro-regione si poteva a sua volta suddividere in Venezia Euganea, Venezia Tridentina e Venezia Giulia. La teoria delle “tre Venezie” ebbe grande fortuna nella cultura politica italiana e tale terminologia venne adottata per denominare ufficialmente i territori del Tirolo meridionale e del Litorale annessi dopo la prima guerra mondiale. La Venezia Giulia venne a sua volta suddivisa amministrativamente nelle province di Gorizia, Trieste, Pola e Fiume. Dopo la seconda guerra mondiale ed il lungo dopoguerra (vedi la voce Questione Adriatica), all’Italia rimasero solo la parte meridionale della provincia di Gorizia (con il capoluogo e la cittadina di Monfalcone) ed una minima parte di quella di Trieste (con il capoluogo e cinque altri comuni). All’interno della Venezia Giulia si distinguono solitamente il Goriziano (la valle dell’Isonzo), Trieste, il Carso (altipiano retrostante la città) e l’Istria. Nelle culture politiche slovena e croata il termine non esiste, anche se viene tradotto con Julijska Krajina. Le denominazioni più usate sono invece: Primorje (Litorale) per definire tutto il territorio comprendente la valle dell’Isonzo ed i suoi affluenti, nonché il Carso triestino e la costa fino al fiume Dragogna; Istra (Istria), comprendente tutti i territori a sud del fiume medesimo, ora appartenenti alla repubblica di Croazia.
Etnia e nazione non sono sinonimi. Confonderli – come spesso avviene nel linguaggio comune, nell’uso pubblico ed in quello mediatico – può generare gravi fraintendimenti, specie quando si parla della storia adriatica. Per nazione intendiamo una comunità immaginata (cioè i cui membri non si conoscono tutti), in base ad un numero assai variabile di parametri che non sempre si danno assieme ed in alcuni casi sono fra loro contraddittori (lingua, cultura, insediamento storico, ereditarietà, religione, storia comune, valori condivisi, ecc.).
Fra i diversi modelli di nazione, in Europa nel XIX e XX secolo due hanno avuto principale rilevanza. Il modello francese è di tipo volontarista (plebiscito di ogni giorno): si fonda sulla decisione individuale di appartenenza, a prescindere dai fattori naturalistici (ereditarietà, madrelingua). É un modello fortemente inclusivo, che favorisce l’integrazione. Il modello tedesco è di tipo etnicista (sangue e terra): si fonda su criteri naturalistici (ereditarietà), è naturalmente meno inclusivo ed è pensato per favorire la difesa dall’assimilazione a nazioni culturalmente più sviluppate.
Per questi motivi, nell’area adriatica gli italiani hanno storicamente adottato il modello francese, che risponde perfettamente alle esigenze di comunità socialmente e culturalmente sviluppate, dotate di un forte potere di attrazione. La lingua italiana (nella sua versione veneta) e la cultura italiana, assieme ai vantaggi di status legati all’italianizzazione, sono state infatti capaci di assimilare nel corso dei secoli gli apporti provenienti sia dal Mediterraneo orientale che dall’entroterra slavo.
Viceversa, gli slavi hanno adottato la concezione tedesca, che meglio consentiva alle comunità slovene e croate, in genere socialmente e culturalmente sviluppate, di resistere all’assimilazione alla nazione italiana, dapprima culturale e poi anche politica.
Con tale formula gli aderenti ai movimenti nazionali sloveno e croato intendevano il territorio in cui era storicamente insediata un’etnia rurale, a prescindere dal fatto che in esso si trovassero anche centri urbani appartenenti ad altre nazionalità (nella Venezia Giulia, italiani). Il territorio etnico croato comprendeva le intere Istria e Dalmazia, mentre il limite occidentale del territorio etnico sloveno era considerato il fiume Isonzo. Pertanto, tutte le aree ad oriente di tale linea erano rivendicate quali parti integranti della Croazia e della Slovenia, e quindi, nel primo dopoguerra del Regno dei serbi, croati e sloveni (SHS); nel secondo, della Repubblica federativa jugoslava. La categoria di “territorio etnico” ovviamente ha senso solo all’interno di una concezione etnicista della nazione (vedi la voce Etnia e nazione). Nella cultura politica italiana essa non esiste.
É la forma storicamente assunta nel XIX e XX secolo, a seguito del processo di nazionalizzazione, da una presenza italiana di assai più lunga data sulle sponde orientali dell’Adriatico. Connotati tipici di tale presenza secolare, fra loro strettamente connessi, erano soprattutto i seguenti:
1) Il carattere marittimo, in un contesto storico in cui, fin dalla prima antichità, ricchezze, idee, innovazione venivano dal mare.
2) L’inclusività, perché la sua origine era doppia: in parte etnica, vale a dire la continuità con il popolamento romanzo, ben evidente nelle principali città; in parte frutto di integrazione degli apporti provenienti sia dal mare (penisola italica e Mediterraneo orientale) che dall’entroterra.
3) Il carattere urbano, anche questo in continuità con la tradizione prima romana e poi dei comuni medievale italiani, secondo la quale la città è il fulcro di quella che, appunto, viene chiamata vita civile o, più semplicemente, civiltà.
4) Il potere, vale a dire l’egemonia sociale, culturale e politica.
É la competizione per il controllo dell’Adriatico, sviluppatasi dapprima fra Italia e Austria, poi fra Italia e Jugoslava. L’Austria era la dominatrice del mare, grazie al possesso della costa dalmata, frastagliata e ricca di porti, ed alla superiorità della sua flotta mercantile con base a Trieste e Fiume. Dopo la prima guerra mondiale la superiorità passò all’Italia, grazie all’annessione di Trieste, l’Istria, Fiume e Zara, mentre la Jugoslavia, per pur possedeva la Dalmazia, non era dotata di flotte né militari né mercantili competitive. Durante la seconda guerra mondiale l’Italia trasformò la sua superiorità in controllo totale, con l’occupazione della Dalmazia e del Montenegro. Dopo l’8 settembre 1943 la potenza italiana collassò. Nel dopoguerra, perdute Zara, Fiume e l’Istria, l’ultima fase della Questione adriatica fu la Questione di Trieste, cioè il conflitto diplomatico per l’appartenenza statuale del capoluogo giuliano. La Questione si concluse nel 1954 con il Memorandum di Londra, grazie al quale l’Italia riottenne il controllo di Trieste.
I movimenti nazionali, italiano da un lato e sloveno e croato dall’altro, cominciarono a confliggere soprattutto a partire dagli anni ’80 dell’800, come conseguenza dei fenomeni di nazionalizzazione parallela competitiva che interessarono tutti i gruppi linguistici all’interno dell’area asburgica [per approfondimenti si segnalano i seguenti link al sito www.regionestoria.fvg.eu: Il movimento nazionale italiano a Trieste; Il movimento nazionale italiano in Istria; Il movimento nazionale sloveno nel Litorale e Il movimento nazionale croato in Istria]. Nella parte austriaca dell’Impero le nazionalità linguistiche erano infatti riconosciute per legge, ma non era ammessa la loro trasformazione in entità politiche.
I movimenti nazionali erano fra loro diversi per ispirazione (vedi la voce Etnia e nazione), ma condividevano alcuni orientamenti di fondo, come la tendenza all’intolleranza e la concezione secondo la quale il territorio appartiene alla nazione che lo abita. Naturalmente, quando nel medesimo territorio abitano più gruppi nazionali, ne segue il conflitto, alimentato da: pregiudizi; volontà di nazionalizzare le masse, che spesso si trovavano ancora in una condizione di indifferentismo nazionale, legato anche al diffuso bilinguismo dialettale; ricerca spasmodica di determinare maggioranze e minoranze (spesso manipolando i dati); costruzione di narrazioni in cui la nazione preferita viene presentata come residente “da sempre” sul territorio e l’altra come straniera, venuta dopo, importata da poteri ostili.
Come nel resto dell’Impero, il governo di Vienna cercò di bilanciare il monopolio di una nazione a livello locale. Infatti, nel sistema amministrativo asburgico, fortemente decentrato, una minoranza numericamente marginale a livello statale, ma fortemente presente in un territorio ristretto, poteva amministrarsi quasi autonomamente. Nel Litorale (Goriziano, Trieste, Istria) il potere nella società e nella politica era unicamente in mano agli italiani, per ragioni storiche ed economiche. Il governo quindi guardò con favore ed in alcuni casi direttamente sostenne le rivendicazioni slovene e croate, anche perché dopo le tre guerre d’indipendenza diffidava sempre più degli italiani. Le rivendicazioni nazionali slovene e croate si esprimevano invece sempre all’interno della cornice imperiale. A sua volta, l’appoggio delle autorità statali ai movimenti nazionali slavi esacerbò il sentimento nazionale dei patrioti italiani, spingendoli verso l’irredentismo (vedi la voce Irredentismo italiano). Un impulso in tale direzione venne dal “precedente dalmata”. Sino agli anni ’70 dell’800 infatti, egemone nella regione era il partito autonomista, espressione dei ceti urbani, etnicamente misti ma di lingua e cultura italiana. Successivamente invece, l’allargamento del suffragio alle masse rurali e l’appoggio dei rappresentati dello stato asburgico favorirono l’ascesa del movimento nazionale croato, che riuscì ad assicurarsi il controllo della Dieta provinciale e dei principali comuni, con la sola eccezione di Zara. Ne seguì il collasso dell’italianità dalmata. Verso la fine del XIX secolo tra i patrioti italiani si diffuse il timore che la medesima situazione si potesse prima o poi ripetere anche a Trieste ed in Istria, dove peraltro gli italiani erano assai più numerosi.
Dopo la Grande guerra, l’Impero multinazionale fu sostituito da stati nazionali (che sarebbe più corretto chiamare “stati per la nazione”). Di conseguenza, i patrioti della nazione la cui madrepatria aveva ottenuto il controllo della regione poterono schierare tutta la forza dello stato contro i loro avversari. Ciò accadde nel primo dopoguerra a danno degli sloveni e croati, mentre invece nel secondo dopoguerra a danno degli italiani.
Nel 1877 il patriota ed ex garibaldino italiano Matteo Renato Imbriani coniò la formula «terre irredente»: l’aggettivo, tipico della “religione della patria”, indicava le regioni dell’Impero degli Asburgo che ospitavano comunità di italiani ancora separate dalla madre patria, vale a dire il Trentino, la Venezia Giulia e la Dalmazia. Imbriani fondò la Società Pro Italia irredenta la cui presidenza onoraria fu assegnata a Giuseppe Garibaldi. Le radici del movimento ‒ ben presto affiancato dalla massoneria [per un approfondimento si segnala, sul sito www.regionestoriafvg.eu, la voce Massoneria e Irredentismo ‒ affondavano dunque nel terreno del mazzinianesimo e del garibaldinismo. Il termine ebbe pronta diffusione e si estese anche ad altri contesti europei, dove esistevano gruppi nazionali incorporati in contesti statuali diversi, e che desideravano essere uniti allo stato-nazione di riferimento. Per un approfondimento su questa tematica si segnala la voce Irredentismo.
Le aspirazioni degli irredentisti italiani furono tuttavia a lungo osteggiate dal governo di Roma che, sottoscritta la Triplice alleanza, era più interessato all’espansione coloniale che a battersi nuovamente contro l’Austria. L’irredentismo assunse così una dimensione prevalentemente ‒ ma non esclusivamente ‒ culturale e mirò a difendere le tradizioni linguistiche, letterarie e artistiche del gruppo italiano, coltivando i legami con la madre patria. Di qui anche l’importanza delle battaglie sostenute per la difesa della scuola italiana. Non mancarono tuttavia gesti clamorosi, come alcuni attentati eseguiti da gruppi di cospiratori, soprattutto a Trieste. In particolare, il giovane triestino Guglielmo Oberdan (nato Wilhelm Oberdank, madre goriziana slovena e padre proveniente dal Lombardo-Veneto, all'epoca dominio imperiale) progettò di uccidere l’imperatore Francesco Giuseppe e per questo fu condannato a morte (1882), divenendo il “protomartire” dell’irredentismo. Si segnala il progetto "Oberdan tra noi" realizzato dall'Irsml FVG con il contributo del Comune di Trieste e dagli alunni della IV G del Liceo scientifico «G. Oberdan» di Trieste (a. s. 2011-2012).
Mentre nascevano nuove organizzazioni di ispirazione irredentista come la Lega nazionale (1891) e diverse associazioni sportive, il movimento assunse le caratteristiche dei movimenti politici di massa e si avvicinò al nazionalismo. Alla vigilia della Grande guerra, a Trieste si potevano distinguere un “irredentismo culturale” (Scipio Slataper, Giani Stuparich) che voleva fare della città un ponte fra mondo latino, germanico e slavo, ed un irredentismo imperialista (Ruggero Timeus) che assegnava invece a Trieste il ruolo di trampolino per l’espansionismo italiano nell’Europa centrale. A Fiume, irredentista fu soltanto una pattuglia di giovani, mentre la maggior parte degli italiani aderiva al partito autonomista, che si batteva per la difesa dell’identità italiana ma sempre all’interno del Regno di Ungheria, di cui Fiume era Corpo Separato. Per un approfondimento si segnala, sul sito www.regionestoriafvg.eu, la voce Autonomismo fiumano. In Dalmazia gli autonomisti si convertirono all’irredentismo solo allo scoppio della guerra.
Dopo l’entrata in guerra dell’Italia, molti giovani irredentisti, a prescindere dai precedenti orientamenti, si arruolarono nell’esercito italiano, aggiungendo ai rischi di guerra quello di venir giustiziati come traditori se catturati degli austriaci. Fu questo il caso del capodistriano Nazario Sauro, simile a quello del trentino Cesare Battisti. Altri caddero in combattimento come i triestini Guido Brunner, Spiro Xidyas, Scipio Slataper, Carlo Stuparich, Ruggero Timeus, il capodistriano Guido Corsi, il dalmata Francesco Rismondo (che si ritenne a lungo essere stato giustiziato). In Austria le organizzazioni irredentiste vennero sciolte ed i loro esponenti arrestati o internati, mentre le sedi dei circoli e dei giornali irredentisti a Trieste vennero devastati fra il 23 e il 24 maggio 1915. Sull'incendio del Piccolo si rimanda al progetto "Le vie della memoria. Un percorso tra le violenze del Novecento nella Provincia di Trieste", in particolare alla scheda "L'assalto al Piccolo"
L’irredentismo sloveno e croato prese corpo nel primo dopoguerra. Nel periodo asburgico infatti i movimenti nazionali slavi operanti nel Litorale ed in Istria avrebbero preferito la formazione di una compagine degli slavi del sud autonoma, ma all’interno della cornice imperiale asburgica, come già accadeva per l’Ungheria. [Per un approfondimento si segnala, sul sito www.regionestoriafvg.eu, le voci Il movimento nazionale sloveno nel Litorale e Il movimento nazionale croato in Istria]. Dopo il 1918 invece i patrioti sloveni e croati si batterono per l’annessione al Regno dei serbi, croati e sloveni, ma invano. Dopo l’annessione all’Italia, i leader sloveni e croati mostrarono lealismo nei confronti del nuovo stato, anche dopo l'avvento del fascismo; tra l'altro, essi non aderirono all'opposizione legale quando nel 1924 essa si ritirò sull'Aventino in segno di protesta contro il delitto Matteotti. Contemporaneamente, con il sostegno dei servizi segreti jugoslavi si formarono alcuni piccoli nuclei cospirativi sloveni che collaborarono con alcuni militanti dell'organizzazione nazionalista jugoslava ORJUNA, per compiere azioni di sabotaggio lungo il confine. [Per un approfondimento si segnala, sul sito www.regionestoriafvg.eu, la voce TIGR].
Dopo l’avvio della politica snazionalizzatrice, gruppi di giovani ex dirigenti delle organizzazioni nazionaliste slovene e croate si riunirono in clandestinità e costituirono il movimento TIGR (Trst, Istra, Gorica, Rijeka). Il TIGR pubblicò il giornale clandestino “Borba” (lotta) e svolse attività propagandistica e di lotta armata, inizialmente anche in collegamento con la formazione antifascista italiana “Giustizia e libertà”. Quest’ultima cessò la sua collaborazione quando il TIGR esplicitò i suoi obiettivi irredentisti. Vittime delle azioni terroriste furono principalmente slavi considerati collaboratori dello stato italiano e del regime fascista. La prima reazione delle autorità portò nell’ottobre del 1929 alla fucilazione a Pola del croato Vladimir Gortan ed a pesanti condanne per quattro suoi compagni.
Particolare clamore suscitò l’attentato al “Popolo di Trieste” del febbraio 1930, in cui rimase ucciso un redattore. L’organizzazione venne distrutta da una vasta azione repressiva che culminò del processo celebrato a Trieste nel settembre 1930 da parte del Tribunale speciale per la difesa dello stato, che comminò quattro condanne a morte. Ferdo Bidovec, Fran Marušič, Zvonimir Miloš e Alojz Valenčič furono fucilati al poligono di Basovizza. Su questo tema si rimanda al progetto "Le vie della memoria", in particolare alla scheda "I fucilati di Basovizza".
Il movimento clandestino si riformò negli anni successivi, questa volta anche con l’appoggio del partito comunista d’Italia. Alla fine degli anni ’30, quando cominciarono a spirare venti di guerra, il TIGR iniziò a collaborare, oltre che con i servizi segreti jugoslavi, anche con quelli britannici. L’organizzazione fu definitivamente smantellata nel 1941. Nel dicembre il secondo processo del Tribunale speciale a Trieste comminò nove condanne a morte, di cui cinque eseguite: Pinko Tomažič, Viktor Bobek, Ivan Ivančič, Simon Kos e Ivan Vadnal, fucilati al poligono di Opicina.
L'espressione «pulizia etnica» è entrata nell'uso comune negli anni ’90 del XX secolo, diffusa dai mass-media, che hanno tradotto l'espressione serbocroata etničko čišćenje usata dai mass-media locali in riferimento ai massacri in corso durante le guerre jugoslave. Il termine “pulizia” richiama un campo semantico assai diffuso nel linguaggio della biopolitica del ‘900 (le “pulizie” naziste dagli ebrei, le “purghe” staliniane) che rimandano ad una concezione della comunità come organismo vivente che va depurato dagli elementi infetti (su base etnica, razziale, di classe). Il termine “etnico” rimanda invece alla concezione etnicista della nazione adottata dai movimenti nazionali slavi. Pertanto, tale aggettivo non può venir applicato a comunità nazionali che si definiscono su basi non etniche, come gli italiani della Venezia Giulia e Dalmazia. In tali casi è preferibile far riferimento ai processi di “semplificazione nazionale” che hanno interessato tutta l’Europa centro-orientale nel ‘900.
Definire «pulizia etnica» fenomeni quali le foibe e l’esodo è quindi un grave errore, che denota incomprensione sia del termine che delle caratteristiche peculiari dell’italianità adriatica.
Negazionismo/Riduzionismo/Giustificazionismo
Si tratta di termini molto diffusi, non sempre a proposito.
Nell’ambito storico, per Negazionismo s’intende l’atteggiamento di negazione pregiudiziale di eventi la cui realtà è considerata inaccettabile alla luce delle proprie convinzioni. Il termine è normalmente riferito alla Shoah e ad altri genocidi. Fermo restando che nelle terre adriatiche fenomeni di tipo genocidario non ve furono – se non appunto le ricadute locali della Shoah – alcuni aspetti dell’approccio negazionista sono stati applicati anche ad altre vicende, quali le foibe (qui intese come stragi) e l’esodo (qui inteso quale spostamento forzato di una popolazione autoctona), tanto da presentarli quali meri frutti della propaganda italiana. Tale approccio consiste nell’adozione di un metodo ipercritico che, partendo dalla normale critica delle fonti, finisce per negare credibilità a tutte quelle che contraddicono l’interpretazione preferita. Spesso il negazionismo parte dall’individuazione di errori puntuali effettivamente presenti nelle testimonianze, per inficiarne la validità complessiva; ovvero, muove dalla denuncia di esagerazioni, deformazioni, manipolazioni e strumentalizzazioni compiute nella presentazione dei fatti, per giungere a smentire l’esistenza degli avvenimenti stessi. Ad esempio, partendo dalla critica di evidenti esagerazioni nella quantificazione delle stragi delle foibe (10, 20mila morti) si può in tal modo arrivare a negare che le stragi siano effettivamente avvenute. Altre tecniche consistono nel mettere in dubbio la credibilità dei testimoni in base alle loro appartenenze e/o nel decontestualizzare le testimonianze.
Quella di Riduzionismo è una categoria dai contorni più sfuggenti. In termini generali, può riguardare il tentativo di ridurre artificiosamente la portata di fenomeni sgraditi, operando vuoi sul piano numerico che su quello del loro significato. Nel primo caso, tipica è l’adozione di stime le più basse possibili quando si tratta di quantificare le vittime di stragi, deportazioni, espulsioni di massa, laddove lo stato delle fonti non consenta calcoli precisi ed incontrovertibili. Nel secondo caso, un buon esempio, relativo alle stragi delle foibe, consiste nel concentrare l’attenzione sulle motivazioni individuali delle singole uccisioni, in modo da occultare il fatto che esse facevano parte di un disegno repressivo organizzato. Per quanto riguarda l’esodo, un caso da manuale di approccio riduzionista si ha nel rifiuto di considerare le motivazioni politiche, in risposta ai comportamenti delle autorità jugoslave, come una delle componenti fondamentali del fenomeno, che viene in tal modo “ridotto” ad una normale migrazione economica ovvero alla conseguenza della propaganda italiana.
Spesso al riduzionismo si accompagna un atteggiamento giustificazionista, rispetto al quale è necessario un chiarimento di fondo. E’ assolutamente normale ed assai utile, nella ricerca e nella ricostruzione storica, assumere i punti di vista dei diversi attori, in modo da capire meglio le motivazioni e le logiche che li hanno mossi. Comprendere, ovviamente, non significa affatto di per sé giustificare: ad esempio, studiare dall’interno i meccanismi che resero possibile la Shoah non significa essere nazisti e, allo stesso modo, analizzare dall’interno i presupposti, gli obiettivi e i metodi dell’ondata repressiva del maggio 1945 nella Venezia Giulia, non vuol dire affatto condividerli. Giustificazionismo invece vuol dire immedesimarsi nella visione di uno dei soggetti storici, al punto da approvare senza riserve tutte le sue azioni. Una tipica lettura giustificazionista è quella che vede nelle foibe soltanto una legittima reazione alle violenze fasciste e/o un’altrettanto legittima violenza rivoluzionaria contro i nemici di classe. Nella medesima direzione va il tentativo compiuto in sede interpretativa, di rovesciare sulle vittime l’onere della prova della loro innocenza, così come avveniva nei procedimenti sommari.
Grande attenzione peraltro, va posta a non considerare semplicisticamente come negazionismo/riduzionismo/giustificazionismo, tutti gli atteggiamenti di critica nei confronti di interpretazioni consolidate, specie se queste sono maturate nell’ambito polemico-politico piuttosto che scientifico, perché la messa in discussione delle precedenti letture del passato rientra nella normale pratica della ricerca, così come la presa di distanza dalle semplificazioni diffuse nell’uso pubblico della storia..
Fascismo di confine (ideologia)
«Fascismo di confine» è la definizione che il nuovo movimento (trasformatosi poi in partito) scelse fin dal 1919 per sottolineare la sua specifica identità in relazione alla realtà locale (il Friuli e soprattutto la Venezia Giulia) e nazionale. Si delineò molto velocemente l’immagine e il mito del confine come «barriera» invalicabile e, nello stesso tempo, come bastione da cui proiettarsi verso l’Europa Sud – Orientale, segnatamente verso il Regno dei serbi, croati e sloveni (SHS), appena sorto. A Trieste fu precoce, rispetto ad altre zone d’Italia, la nascita del fascio (3 aprile del 1919) e fu presto organizzata la sua violenta forza d’urto. Alle sue origini vi era un insieme disordinato di gruppi diversi e di idee non ben delineate: dalle urla rabbiose contro la «vittoria mutilata», al grido di vendetta per i troppi morti e le troppe sofferenze provocate dalla guerra, alle promesse di giustizia sociale e di rinnovamento politico contro le istituzioni rappresentative e associative della fragile democrazia liberale. Un forte nesso di aggregazione venne costituito da alcuni precisi elementi: il nemico esterno, gli «slavi» del Regno SHS; il nemico interno e cioè gli «slavi» presenti nell’area, contro cui la tradizione nazionalista si era ben allenata nel passato; l’evidente incapacità delle nuove autorità italiane (salvo rare e deboli eccezioni) di capire in quale mondo fossero state delegate a governare. Il movimento di ribellione sociale guidato dai sindacati e dal partito socialista si presentava, a sua volta, come il primo contendente dello scontro diretto e violento che si aprì nelle piazze e nei quartieri operai.
Fascismo di confine (squadrismo)
A Trieste «le squadre volontarie di difesa cittadina» sorsero nel maggio del 1920, per raggiungere ben presto una forte potenzialità d’azione, sotto la guida di Francesco Giunta, destinato ad una importante carriera durante il ventennio fascista, ma giunto a Trieste nelle vesti di avvocato e soprattutto di ex ufficiale dell’esercito, all’interno di quegli uffici ITO (Uffici Informazioni Truppe Operanti) che ebbero un ruolo essenziale nell’orientare l’opinione delle autorità italiane sulla realtà sociale e politica dei territori appena occupati dopo il crollo dell’Impero austro ungarico.
Nel marasma del primo dopoguerra, Francesco Giunta, emulo di D’Annunzio, organizzò le squadre per combattere quella che veniva definita «l’Antinazione» (sloveni, croati e socialisti). Si trattava di circa 156 soggetti molto attivi nella sola Trieste, tenendo conto che nel 1921 la Federazione fascista di Trieste contava 14.756 iscritti. Erano uomini – ragazzi, spesso sono legati tra loro da vincoli di parentela (cugini, fratelli, padri e figli), che proiettavano la loro aggressività dalle famiglie verso l’esterno, ma che altrettanto spesso provenivano dall’esperienza fiumana e dalla disperata fuga dalle loro terre d’origine (dal Centro e dal Sud Italia) in cerca di fortuna e di lavoro. In poco tempo l’idea della «squadra» si consolidò attraverso le sanguinose spedizioni verso le campagne abitate prevalentemente da sloveni e da croati o in altre zone della regione, mentre le autorità politiche e militari rifuggivano da azioni decise di contrasto. Il legame interno era poi esibito dalla divisa comune (la camicia nera), dal cameratismo audace che evocava il ricordo della guerra e da atteggiamenti e comportamenti che rifiutavano l’immagine dell’uomo disorientato e ferito, imponendo quella del «maschio» sano e invincibile.
Il collante principale fu, tuttavia, la violenza, fonte di esaltazione e di complice ricatto. Il 13 luglio 1920, l’incendio del Narodni Dom, il più moderno e importante centro culturale delle organizzazioni slave della città, segnò il trionfo dello squadrismo fascista e del capo carismatico Francesco Giunta, che in quell’azione ripose l’essenza del fascismo di confine, mentre le autorità civili e militari rimanevano a guardare, senza opporre alcuna forma di contrasto. Nel disordine violento delle squadre, infatti, intravvedevano, la possibilità di ristabilire l’ordine che esse non erano capaci di imporre con i mezzi della tradizione liberale, mentre, al loro interno, non mancavano forme di complicità e di condivisione rispetto al nuovo soggetto politico. [Su questo tema si rimanda al progetto "Le vie della memoria" in particolare alla scheda "Il rogo del Narodni Dom"].
Nel disordine violento delle squadre, infatti, intravvedevano, la possibilità di ristabilire l’ordine che esse non erano capaci di imporre con i mezzi della tradizione liberale, mentre, al loro interno, non mancavano forme di complicità e di condivisione rispetto al nuovo soggetto politico.
Fascismo di confine (bonifica etnica)
Una delle fonti principali d’ispirazione del fascismo di confine fu senz’altro rappresentata dal nazionalismo: il tema dell’antislavismo si annidava quindi nel cuore del nuovo movimento e poi del PNF, provocando una serie di provvedimenti legislativi tendenti ad escludere una parte importante della popolazione slovena e croata della regione dalla partecipazione alla vita pubblica. L’italianizzazione dei cognomi, la riscrittura della toponomastica, la subitanea persecuzione del clero «slavo», la chiusura delle scuole slovene e croate nonché di tutte le associazioni e partiti che a quel mondo si riferivano, rappresentavano tuttavia solo una parte (certo la più vistosa) di scelte di snazionalizzazione, che crearono divisioni profonde all’interno di una comunità che, nonostante gli attacchi del nazionalismo del primo Novecento, aveva trovato forme di mediazione significative: matrimoni misti, affari in comune, mescolanze culturali non erano affatto fenomeni rari. Il fascismo di confine, anche attraverso provvedimenti di polizia molto pesanti (la vigilanza puntigliosa, le denunce, il confino, il deferimento presso il Tribunale speciale per la difesa dello Stato), tentò di cancellare l’identità di coloro che venivano considerati, secondo una definizione ricorrente, «gli infedeli»: il regime fascista, non diversamente di quanto accade per il resto della popolazione italiana, chiedeva loro supina obbedienza. Nel caso degli sloveni e dei croati presenti nell’area era tuttavia incombente la minaccia di essere accusati di terrorismo, sostenuto dal nemico slavo al confine. La propaganda e il disprezzo verso la popolazione slovena e croata, considerata di civiltà inferiore, si univa spesso a forme di allettamento soprattutto sul piano dell’assistenza verso i più disagiati. Il totalitarismo fascista, puntando alla ridefinizione del corpo nazionale sotto le sue esclusive insegne, seguì, infatti, molte strade: l’adescamento (e la «conversione») «dei diversi» fu una di queste.
Che l’operazione di «bonifica etnica» fosse riuscita non si può dire, poiché la popolazione, nelle chiese e nelle case, continuò in buona misura a preservare la propria identità, opponendo una resistenza tenace che spesso si trasformava in aperta opposizione antifascista. «Brutale e fiacca» è stata definita quella scelta di snazionalizzazione tanto esaltata dalla propaganda: un censimento riservato del 1939 per tutta la Venezia Giulia, impostato secondo i criteri della lingua d’uso, mostrò alle autorità competenti la solidità della presenza «allogena», ben poco scalfita, rispetto al 1921, nella sua consistenza numerica (circa 395.000 alloglotti presenti su una popolazione di un 1.000.000 unità), nonostante anche una forte emigrazione (molte decina di miglia di unità, stime più precise sono impossibili). Tuttavia, il gioco mortale innescato dal disprezzo e dall’odio che si colora di razzismo non avrà termine. A lungo, anche dopo la caduta del fascismo, sarà destinato a lacerare le terre di confine.
OCCUPAZIONI ITALIANE IN JUGOSLAVIA
A seguito dell’aggressione alla Jugoslavia dell’aprile 1941 da parte delle truppe dell’Asse, seguita da una rapida vittoria tedesca, il Paese balcanico venne diviso fra i vincitori. La Serbia rimase formalmente indipendente sotto controllo germanico, ma grandemente ridimensionata, avendo perso territori a favore dell’Ungheria e della Bulgaria. La Croazia venne costituita in stato indipendente, retto dal regime fascista degli ustascia (già movimento terrorista finanziato dall’Italia) con a capo Ante Pavelić; comprendeva anche la Bosnia-Erzegovina, ma non la Dalmazia, annessa all’Italia. Il Montenegro venne staccato dalla Serbia, perse il Kossovo a vantaggio dell’Albania e venne controllato dall’Italia. La Slovenia perse alcuni territori a vantaggio dell’Ungheria e venne divisa fra la Germania e l’Italia (provincia di Lubiana).
La Croazia era considerata uno stato alleato della Germania e dell’Italia, ma il suo territorio rimase occupato sia da tedeschi che italiani, per garantire l’ordine pubblico. Infatti, la dura politica antiserba del regime scatenò la ribellione armata dei serbi. Inoltre, dopo l’attacco tedesco all’Unione Sovietica del 1941, in quasi tutta la ex Jugoslavia cominciò ad agire un movimento partigiano a guida comunista.
Nei territori occupati le truppe italiane tennero comportamenti contradittori. In genere protessero la popolazione serba là dove essa era minacciata dalle persecuzioni ustascia. Inoltre, si rifiutarono di consegnare gli ebrei ai tedeschi e li posero al sicuro sull’isola dalmata di Arbe.
Invece, nelle zone in cui era attivo il movimento partigiano adottarono pratiche repressive estreme. Gli ordini impartiti, fra cui la circolare 3C del generale Roatta del marzo 1942, configuravano una vera e propria «guerra ai civili». Le azioni antiguerriglia prevedevano arresti, prese di ostaggi, fucilazione degli ostaggi medesimi, distruzione dei paesi, uccisione degli uomini e deportazione di donne e bambini. In particolare, nelle zone in cui l’esercito italiano non riusciva a venire a capo della ribellione, provvide a svuotare il territorio con la deportazione in massa della popolazione.
I deportati furono alcune decine di migliaia, reclusi in un gran numero di campi collocati sulle isole dalmate e nella penisola italiana. I più famigerati furono quelli di Gonars in Friuli e dell’isola di Arbe. Qui la mortalità fu assai elevata per le pessime condizioni igieniche ed abitative e la sistematica sottonutrizione.
A partire dal 1942 le azioni partigiane cominciarono ad interessare anche le province giuliane di Fiume, Trieste e Gorizia. Anche qui pertanto le autorità italiane adottarono le medesime pratiche repressive. Va segnalata ad esempio la strage compiuta nel luglio 1942 nel paese di Podhum, nei pressi di Fiume, in cui vennero uccisa una novantina di persone, cioè tutti i maschi adulti del villaggio. Sempre nel 1942 venne costituito l’Ispettorato speciale di pubblica sicurezza per la Venezia Giulia, specificatamente dedicato alla lotta antipartigiana mediante l’infiltrazione e la tortura.
Dal latino fovea, sloveno e croato jama. Inghiottitoio tipico dei terreni carsici. L’imboccatura può essere larga da alcuni centimetri ad alcuni metri e il pozzo può sprofondare per molte decine di metri, anche con più salti. Nel solo Carso triestino ed in quello goriziano si trovano alcune migliaia di cavità di vario tipo ed il medesimo terreno è diffuso in Slovenia e Croazia.
Storicamente, le foibe sono state utilizzate episodicamente come depositi di materiali di scarto. Durante la seconda guerra mondiale ed il dopoguerra, sono state intensivamente adoperate per far sparire i cadaveri di caduti in combattimento e/o vittime di eccidi, data la difficoltà di scavare fosse comuni nel terreno roccioso. Tale uso in Croazia è attestato fin dal 1941. Nella Venezia Giulia sono state adoperate allo stesso modo nell’autunno del 1943 (particolarmente nota la foiba di Vines, in Istria) e nella primavera/estate del 1945 (note la foiba Plutone, vicino Trieste; le foibe di Gargaro e Zavni in provincia di Gorizia; la foiba di Costrena nei pressi di Fiume).
Medesimo utilizzo hanno avuto cavità minerarie, con le quali spesso le foibe vengono confuse nel linguaggio corrente. Particolarmente note sono la Huda Jama nella zona di Laško in Slovenia e nella Venezia Giulia il pozzo della miniera di Basovizza, solitamente chiamato foiba di Basovizza.
In realtà non si tratta di una foiba (abisso carsico), bensì di una cavità mineraria (pozzo della miniera), di grandi dimensioni (larga una decina di metri, profonda più di 250). Nella prima decade di maggio del 1945 venne probabilmente utilizzata per gettarvi le salme di diverse centinaia di prigionieri italiani fucilati nei pressi. Testimonianze concordi parlano dei processi sommari tenuti nell’arco di un paio di giornate a carico di alcune centinaia di uomini arrestati a Trieste, pare in massima parte membri della Questura. Ai processi seguirono le fucilazioni collettive e l’occultamento dei cadaveri nel pozzo e forse anche in alcune altre foibe vicine. Nell’abisso vennero gettati anche i resti della battaglia svoltasi pochi giorni prima nel vicino paese di Basovizza, alle porte di Trieste, fra truppe tedesche e jugoslave, nonché altri materiali. [Su questo tema si rimanda al progetto "Le vie della memoria" in particolare alla scheda "La foiba di Basovizza"].
I recuperi delle salme tentati dalle autorità anglo-americane non ebbero esito, per difficoltà tecniche legate soprattutto alla presenza di munizioni inesplose. In assenza di riscontri obiettivi, ancora nell’estate del 1945 un giornalista italiano, considerata la massa di detriti presenti nel pozzo, la cui profondità era nota, ipotizzò che entro la foiba avrebbero potuto trovare posto fino a 1.500 cadaveri. Una simile ipotesi, da parte dei media del tempo e nell’ambito della lotta politica assai vivace in quegli anni, si trasformò ben presto nell’affermazione che a Basovizza erano stati infoibati 1.500 italiani. Tale convinzione si è poi consolidata nella memoria e nell’uso pubblico e viene ancor oggi spesso ripetuta senza alcun vaglio critico.
Il pozzo della miniera di Basovizza è divenuto nel tempo il luogo simbolo di tutte le foibe. Costituisce a tutt’oggi la sede privilegiata di cerimonie commemorative e patriottiche. Utilizzato negli anni ’50 come discarica di materiali inerti, è stato successivamente chiuso con una lastra di pietra, proclamato nel 1992 monumento nazionale e nel 2007 oggetto di un nuovo intervento di monumentalizzazione, che ha comportato anche la realizzazione di un centro visite.
Termine correntemente usato per indicare le stragi dell’autunno 1943 in Istria e del maggio 1945 in tutta la Venezia Giulia per opera del movimento di liberazione jugoslavo (autunno 1943) e dello stato jugoslavo (primavera 1945), occasioni nelle quali i corpi delle vittime vennero spesso gettati nelle foibe, di solito dopo fucilazione collettiva. L’uso di tale terminologia può essere fonte di equivoci. Molte delle vittime infatti non furono uccise subito dopo l’arresto, ma condotte in prigionia e morirono nei campi, per gli stenti e le angherie. Di molti altri arrestati si è persa ogni traccia rimasero nella categoria dei dispersi (ma non degli infoibati veri e propri). Non vi è quindi alcuna corrispondenza fra il numero degli esumati (gli infoibati veri e propri) e quello complessivo delle vittime.
Definizione correntemente usata per indicare le stragi dell’autunno 1943 in Istria. Dopo la capitolazione italiana dell’8 settembre, per poco più di un mese la penisola istriana cadde per la maggior parte sotto il controllo del movimento di liberazione croato (jugoslavo), che vi applicò le pratiche di lotta correntemente adottate nel corso della lotta di liberazione / guerra civile / rivoluzione in Jugoslavia. Tali pratiche prevedevano nelle zone anche solo temporaneamente liberate, l’immediata eliminazione dei «nemici del popolo». Questa era una categoria di origine bolscevica e staliniana estremamente flessibile, che nel caso dell’Istria riguardava alcuni segmenti di classe dirigente italiana particolarmente invisi ai partigiani, per il loro ruolo svolto nel regime fascista (gerarchi, squadristi), nelle istituzioni (podestà, segretari comunali) e nella società locale (possidenti terrieri, commercianti ed artigiani accusati di strozzinaggio) o comunque ritenuti pericolosi per il nuovo potere.
Le nuove autorità organizzarono gli arresti, la concentrazione dei prigionieri in alcune località specifiche, come Pisino, i processi sommari e le conseguenti fucilazioni collettive, seguite dall’occultamento dei cadaveri nelle foibe o in cavità minerarie. Si trattò quindi di una violenza dall’alto, programmata e gestita dai quadri del movimento di liberazione croato (jugoslavo). Peraltro, essa fu gestita in un clima di grande confusione, segnato da forme di ribellismo dei contadini croati, nel quale trovarono spazio estremismo nazionale, conflitti d’interesse locali, motivazioni personali e criminali, come nel caso di alcuni stupri seguiti da uccisioni, fra i quali assai noto quello di Norma Cossetto.
Definizione correntemente usata per indicare le stragi del maggio 1945 nella Venezia Giulia. Dopo il 1o maggio tutta la regione venne occupata dalle truppe jugoslave, che vi rimasero fino al 9 giugno, data dopo la quale si ritirarono ad est della linea Morgan, mentre ad ovest della linea medesima fu instaurata un’amministrazione militare anglo-americana. Durante l’occupazione si verificò l’estensione alla Venezia Giulia delle pratiche repressive tipiche della presa del potere in Jugoslavia da parte del fronte di liberazione a guida comunista. [Su questo tema si rimanda al progetto "Le vie della memoria" in particolare alla scheda "L'eccidio di via Imbriani"]. Tale presa del potere fu accompagnata da una grande ondata di violenza politica, che nell’arco di poche centinaia di chilometri fra l’Isonzo, la Slovenia e la Croazia fece circa 9.000 morti fra gli sloveni domobranzi, almeno 60.000 fra i croati ustascia ed alcune migliaia fra gli italiani.
Si trattava chiaramente di violenza di stato, programmata dai vertici del potere politico jugoslavo fin dall’autunno del 1944, organizzata e gestita da organi dello stato (in particolare dall’Ozna, la polizia politica). Sta in questo la sua differenza sostanziale con l’ondata di violenza politica del dopoguerra nell’Italia settentrionale. Quest’ultima infatti può venir interpretata come resa dei conti di una guerra civile iniziata negli anni ’20 ed anche come tentativo di alcuni segmenti del partigianato comunista di influire sui termini della lotta politica in Italia, ma non era inserita in alcun disegno strategico di natura rivoluzionaria, perché il PCI in Italia non doveva fare la rivoluzione. Viceversa, nella Venezia Giulia come nel resto della Jugoslavia, quella violenza era strumento fondamentale per il successo della rivoluzione ed il consolidamento del nuovo regime.
Nei territori adriatici quindi lo stragismo aveva finalità punitive nei confronti di chi era accusato di crimini contro i popoli sloveno e croato (quadri fascisti, uomini degli apparati di sicurezza e delle istituzioni italiane, ex squadristi, collaboratori dei tedeschi); aveva finalità epurative dei soggetti ritenuti pericolosi, come ad esempio gli antifascisti italiani contrari all’annessione alla Jugoslavia (membri dei CLN, combattenti delle formazioni partigiane italiane che rifiutavano di porsi agli ordini dei comandi sloveni, autonomisti fiumani); ed aveva finalità intimidatorie nei confronti della popolazione locale, per dissuaderla dall’opporsi al nuovo ordine. Anche in questo caso vi furono infiltrazioni di criminalità comune, come nel caso della foiba Plutone.
Sorte simile a quella degli arrestati civili ebbero i militari della RSI. Dopo la resa i reparti vennero in genere sottoposti a decimazioni selvagge. Poi i prigionieri vennero inviati ai campi dove trovarono condizioni spaventose, per la denutrizione ed i maltrattamenti. Particolarmente noto è al riguardo il caso del campo di Borovnica (pron. Borovnizza) presso Lubiana, dove la mortalità fu assai elevata.
Per le stragi del 1943 l’ordine di grandezza è delle centinaia (le stime variano da 500 a 700). Per le stragi del 1945 l’ordine di grandezza è delle migliaia. Lo stato della ricerca non consente quantificazioni precise. Gli arrestati nelle province di Trieste e Gorizia furono circa 10.000, ma la maggior parte di essi fu liberata nel corso di alcuni anni. Secondo una ricerca condotta a fine anni '50 dall'Istituto centrale di statistica, le vittime civili (infoibati e scomparsi) nel 1945 dalle province di Trieste, Gorizia ed Udine furono 2.627. Probabilmente la cifra è leggermente sovrastimata, perché qualche prigioniero può essere rientrato senza darne notizia. D'altra parte, a tale stima vanno aggiunte le circa 500 vittime accertate per Fiume e qualche centinaio dalla provincia di Pola. Inoltre, mancano dal computo i militari della RSI, per i quali il calcolo è difficilissimo, in quanto le fonti non li distinguono dagli altri prigionieri di guerra. Una stima complessiva delle vittime fra le 3.000 e le 4.000 sembra perciò abbastanza ragionevole. Cifre molto superiori (10.000 o più) sono sicuramente frutto di errori, volute leggerezze metodologiche (come il computo di presunte migliaia di vittime nel pozzo della miniera di Basovizza o nella foiba 147 del Carso triestino), ovvero intenti propagandistici.
Foibe del 1945 (giudizio contenuto nel Rapporto finale della Commissione storico-culturale italo-slovena, non riguarda quindi l'Istria)
«L'estensione del controllo jugoslavo dalle aree già precedentemente liberate dal movimento partigiano fino a tutto il territorio della Venezia Giulia fu salutata con grande entusiasmo dalla maggioranza degli sloveni e dagli italiani favorevoli alla Jugoslavia. Per gli sloveni si trattò di una duplice liberazione, dagli occupatori tedeschi e dallo Stato italiano. Al contrario, i giuliani favorevoli all'Italia considerarono l'occupazione jugoslava come il momento più buio della loro storia, anche perché essa si accompagnò nella zona di Trieste, nel Goriziano e nel Capodistriano ad un'ondata di violenza che trovò espressione nell'arresto di molte migliaia di persone, - in larga maggioranza italiane, ma anche slovene contrarie al progetto politico comunista jugoslavo -, parte delle quali vennero a più riprese rilasciate; in centinaia di esecuzioni sommarie immediate - le cui vittime vennero in genere gettate nelle "foibe"; nella deportazione di un gran numero di militari e civili, parte dei quali perì di stenti o venne liquidata nel corso dei trasferimenti, nelle carceri e nei campi di prigionia (fra i quali va ricordato quello di Borovnica), creati in diverse zone della Jugoslavia.
Tali avvenimenti si verificarono in un clima di resa dei conti per la vio-lenza fascista e di guerra ed appaiono in larga misura il frutto di un pro-getto politico preordinato, in cui confluivano diverse spinte: l'impegno ad eliminare soggetti e strutture ricollegabili (anche al di là delle responsabilità personali) al fascismo, alla dominazione nazista, al collaborazionismo ed allo stato italiano, assieme ad un disegno di epurazione preventiva di oppositori reali, potenziali o presunti tali, in funzione dell'avvento del regime comunista, e dell'annessione della Venezia Giulia al nuovo Stato jugoslavo. L'impulso primo della repressione partì da un movimento rivoluzionario che si stava trasformando in regime, con-vertendo quindi in violenza di Stato l'animosità nazionale ed ideologica diffusa nei quadri partigiani».
Letteralmente, gettati nelle foibe. Simbolicamente, tutte le vittime delle stragi dell’autunno 1943 e della primavera 1945. L’uso simbolico, per quanto assai diffuso, può dar luogo a fraintendimenti. In primo luogo, va precisato che l’infoibamento non era una modalità di uccisione, ma di occultamento delle salme, legato in genere alla difficoltà nello scavo di fosse comuni. Risultano pochissimi casi in cui nell’abisso furono gettate persone ancora vive, specie per errori nella fucilazione. In secondo luogo, non tutte le vittime delle stragi conclusero la loro vita nelle foibe. Molti, forse la maggior parte, trovarono la morte in prigionia. Un uso non accorto del termine infoibati può dar luogo quindi a contestazioni ed equivoci sulla quantificazione delle vittime. Più corretto sarebbe parlare di uccisi e dispersi.
Per esodi nella letteratura scientifica (Ferrara e Pianciola) si intendono "quei casi in cui un gruppo di abitanti fu indotto a fuoriuscire dai confini politici del territorio in cui viveva a causa di pressioni esercitate dal governo che lo controllava, sia in termini di violenza diretta sia in termini di privazione di diritti, soprattutto in corrispondenza di un radicale mutamento politico che investiva le relazioni tra stati (conflitti bellici, crolli e costruzioni di stati). In tali circostanze la migrazione forzata non era il chiaro obiettivo iniziale del governo in questione, né tantomeno quest’ultimo la organizzò; il risultato finale fu comunque l’emigrazione quasi totale del gruppo. Questi casi vanno senza dubbio compresi nel novero delle migrazioni forzate, anche se furono gli unici in cui la scelta di migrare fatta dai singoli o dalle singole famiglie ma estesasi fino ad acquisire una dimensione di massa, ebbe un ruolo attivo nello spostamento. Essi furono inoltre gli unici in cui le condizioni di arrivo (per esempio la concessione della cittadinanza nel paese di accoglienza) furono un fattore importante».
L’esodo quindi è un particolare tipo di spostamento forzato di popolazione, diverso nelle modalità di attuazione rispetto alla deportazione ovvero all’espulsione, ma che giunge al medesimo risultato. La scelta degli italiani di Fiume e dell’Istria di optare per la cittadinanza italiana (come previsto dal trattato di pace) trasferendosi nella Penisola, non può dunque essere considerata una decisione libera da costrizioni.
Esodo dei giuliano dalmati (ondate)
L’esodo non fu un evento unico ma un processo di abbandono lungo l’arco cronologico 1943-1956. I distacchi furono diversificati per motivazioni e tempistiche, ma accomunati dall’esito: il crollo della popolazione italiana nei suoi insediamenti storici. L’esodo da Zara fu il primo in ordine cronologico: iniziato già nel 1941 con una prima ondata di 10.000 partenze, proseguì nel 1942, al ritmo delle devastanti incursioni aeree alleate; si intensificò con l'ingresso delle truppe jugoslave nell'ottobre 1944, per concludersi nei primi anni ’50: nell’intero periodo la città perse il 70